Giurisprudenza Arbitrale - Rivista di dottrina e giurisprudenzaISSN 2499-8745
G. Giappichelli Editore

Ricusazione e c.d. duty of disclosure dell'Arbitro (di Francesca Tizi)


Il presente scritto, occasionato dal decreto del Tribunale di Milano del 23 giugno 2016, affronta alcune problematiche questioni in tema di ricusazione e violazione del dovere di rivelazione dell’Arbitro.

Arbitrator’s challenge and his duty of disclosure

This paper is a comment to the judgment, June 23 2016, of the Milan’s Court. In the writing there are some reflections on Arbitrator’s challenge and his duty of disclosure.

Tribunale Milano, 23 giugno 2016 (Marangoni, presidente ed estensore) – Gestione integrata s.r.l. – Siram s.p.a. – Bianchi Atteso il carattere perentorio del termine per la proposizione dell’istanza di ricusazione del­l’Arbitro, è onere del ricorrente dar prova della data di avvenuta conoscenza dei motivi che la giustificano. (6) Costituisce motivo di ricusazione la sussistenza di rapporti continuativi di consulenza o prestazione d’opera tra una delle parti e l’Arbitro (nel caso di specie il giudice ha escluso che potessero avere rilievo sia la presenza di fatture emesse dallo studio di cui era stato parte l’Arbitro per prestazioni a favore di altra società poi incorporata nella parte, sia la circostanza che la collaborazione fosse stata resa da altri professionisti al di fuori di una effettiva condivisione della difesa tecnica della parte in controversie specifiche). (7) Non costituisce motivo di ricusazione l’esistenza di una causa intrapresa dalla parte nei confronti dell’Arbitro per il risarcimento del danno derivante dall’omessa dichiarazione di aver svolto attività professionale a favore della controparte del giudizio arbitrale. (8)     [Omissis] Osserva quanto segue. 1. La società ricorrente ha dedotto che al momento dell’accettazione della sua designazione da parte del presidente della Corte di Appello di Milano quale presidente del Collegio arbitrale nella controversia insorta tra Gestione Integrata s.r.l. e Siram s.p.a., l’avv. Luigi Arturo Bianchi avrebbe omesso di evidenziare rapporti professionali che egli avrebbe a suo tempo instaurato con Siram s.p.a. A sostegno di tale assunto ha contestato l’esistenza di due fatture datate rispettivamente 8.5.2007 e 7.7.2008 emesse in favore di Siram s.p.a. dallo studio Simmons & Simmons del quale l’avv. Bianchi faceva parte, nonché l’inserimento dello studio D’Urso, Gatti e Associati – del quale l’avv. Bianchi era contitolare – tra i fornitori di fiducia della Siram s.p.a. Ha quindi dedotto di avere avuto notizia che l’avv. Bianchi in ripetuti incontri con soggetti terzi comunque riferibili alla società controllante di Siram s.p.a. (Veolina) avrebbe comunicato la sua intenzione di indire una camera di consiglio per emettere un lodo parziale di accoglimento della domanda svolta in via subordinata da Siram s.p.a. nell’ambito del procedimento arbitrale in questione di annullamento della cessione di azienda oggetto del contenzioso tra le parti, senza che l’esistenza del giudicato costituito da una sentenza del Consiglio di Stato che era intervenuta sulla questione avrebbe potuto preoccuparlo perché «aveva già trovato la tesi giuridica per annientarlo». Ha riferito altresì la ricorrente di aver instaurato innanzi al [continua..]
SOMMARIO:

1. Il caso - 2. I rapporti professionali rilevanti ai sensi dell’art. 815, comma 1, n. 5, c.p.c. - 3. Presenza nell’ordinamento del c.d. duty of disclosure? - 4. Il particolare caso di Arbitro-avvocato - 5. L’artificiosa preordinazione della pendenza della lite non sostanzia la fattispecie di cui all’art. 815, comma 1, n. 4 c.p.c. - 6. Considerazioni conclusive: la violazione del duty of disclosure non è mai fonte di responsabilità dell’Arbitro - NOTE


1. Il caso

Il caso oggetto della decisione che si annota origina dalla seguente vicenda. Una società parte dell’arbitrato proponeva al giudice statale istanza di ricusazione del Presidente del Collegio arbitrale fondandola su presunti pregressi rap­porti professionali tra questo e la controparte non dichiarati al momento del­l’accettazione dell’incarico. Unitamente a tale istanza il ricusante proponeva, sempre nei confronti dell’Arbitro, per gli stessi motivi, anche domanda di risarcimento del danno. Il Presidente del Tribunale di Milano veniva, dunque, chiamato, in sede di ri­cusazione, ad accertare la presenza dei motivi d’incompatibilità dell’Arbitro di cui all’art. 815, comma 1, nn. 4 e 5, c.p.c. E, infatti, oltre alla presenza di pregressi rapporti professionali dell’Arbitro con la controparte, la pendenza della causa risarcitoria, proposta contemporaneamente all’istanza di ricusazione, veniva addotta come l’ulteriore motivo squalificatorio di cui all’art. 815, comma 1, n. 4 c.p.c. sotto il profilo dell’esistenza di causa pendente con il ricorrente. La decisione annotata appare particolarmente importante in quanto offre diversi spunti di riflessione in ordine non solo alla ricusazione dell’Arbitro ma anche alla presenza nel nostro ordinamento del c.d. duty of disclosure. Partiamo, dunque, dall’analisi dell’iter argomentativo della decisione del giudice di Milano.


2. I rapporti professionali rilevanti ai sensi dell’art. 815, comma 1, n. 5, c.p.c.

Nel caso di specie, come indicato, l’istanza di ricusazione prendeva le mosse dalla presunta esistenza di pregressi rapporti professionali dell’Arbitro con la controparte, nonché dalla loro mancata rivelazione da parte del giudice privato al momento dell’accettazione dell’incarico. Più nel dettaglio, l’istante lamentava, tanto in sede di ricusazione che di azione di responsabilità [1], l’omessa dichiarazione dell’Arbitro di pregressi rap­porti professionali fondandola su alcune fatture degli anni 2007 e 2008 pagate dalla controparte allo studio cui questi precedentemente apparteneva, nonché sull’inserimento nell’elenco dei fornitori di controparte del nome del nuovo stu­dio legale di cui l’Arbitro era successivamente divenuto contitolare [2]. Nonostante il ricorrente non avesse adempiuto all’onere «di dare conto del rispetto per il deposito del ricorso del termine perentorio di dieci giorni di cui all’art. 815, comma 3, c.p.c. [3] decorrente dalla conoscenza dei fatti posti a fondamento dell’istanza di ricusazione» [4], il Presidente milanese scendeva, comunque, all’esame dei fatti dedotti, sottolineando la mancanza di prove in ordine alla presenza di un legame tra l’Arbitro e una delle parti rilevante ai sensi dell’art. 815, comma 1, n. 5 c.p.c Se, infatti, l’art. 815, comma 1, n. 5, c.p.c. richiede il carattere della continuità della prestazione, questa – a detta del Presidente milanese – non può essere provata dalla sola presenza di un contatto tra lo/gli studi legali a cui l’Ar­bitro ricusato apparteneva e una delle parti [5]. In altri termini, in linea generale avendo motivo di ricusazione dell’art. 815, comma 1, n. 5 c.p.c. [6] lo scopo di contemplare tutti i possibili rapporti diretti di tipo professionale, patrimoniale ed associativo tra Arbitro ed una delle parti, l’allegazione in giudizio di fatti relativi alla presenza di rapporti professionali, peraltro assolutamente privi del carattere della continuità, tra gli studi legali a cui l’Arbitro apparteneva e uno dei contendenti non appaiono di per sé idonei ad integrare nei confronti del­l’Arbitro la fattispecie di cui all’art. 815, comma 1, n. 5 c.p.c. Sebbene la richiesta [continua ..]


3. Presenza nell’ordinamento del c.d. duty of disclosure?

Il legislatore del 2006, dissociandosi dall’esperienza straniera [9], nel novellare il Codice di rito in materia di arbitrato ha mancato, ancora una volta, di di­sciplinare il c.d. obbligo di disclosure, obbligo che continua, dunque, ad essere espressamente previsto solo a livello deontologico, nei vari regolamenti camerali [10] ovvero in presenza di un’espressa volontà delle parti in tal senso [11]. La mancata esplicita previsione di tale dovere ripropone, dunque, la necessità di ripercorrere le interpretazioni che, nate nel vigore della previgente regolamentazione, mirano a riconoscere l’operatività nel nostro sistema di un gene­rale dovere di rivelazione. Più nel dettaglio, la dottrina espressasi anteriormente alla novella [12] aveva tentato di riconoscere in capo agli Arbitri un «vero e proprio obbligo funzionale al buon andamento dell’arbitrato» [13] di dichiarare eventuali situazioni d’in­compatibilità fondato ora sul generale dovere di buona fede nell’esecuzione del rapporto obbligatorio di cui all’art. 1375 c.c. [14], ora sul particolare tipo di diligenza a cui è tenuto, ex art. 1710 c.c., il mandatario [15], ora, infine, sulla rilevanza della sopravvenuta conoscenza [16] dei motivi di ricusazione [17]. Orbene, le indicate impostazioni, se hanno l’indubbio merito di tentare la legittimazione nel nostro ordinamento di un generale obbligo di rivelazione del­l’Arbitro, si ritiene non possano, tuttavia, in seguito alla novella del 2006, essere accolte [18]. In tal senso sembra, infatti, muoversi non solo la mancata e­spressa previsione di tale dovere, ma anche la presenza di una disciplina unitaria e completa della responsabilità degli Arbitri attraverso la tipizzazione delle relative fattispecie [19]: l’impossibilità di riconoscere una responsabilità civile al di fuori dei casi delineati dall’art. 813-ter c.p.c. esclude il duty of disclosure dell’Arbitro, atteso che non esiste obbligo ove non è prevista una responsabilità per il suo inadempimento. Più nel dettaglio, dalla lettura dell’art. 813-ter c.p.c. sembra, infatti, che gli unici obblighi rilevanti [20], in quanto incidenti sulla [continua ..]


4. Il particolare caso di Arbitro-avvocato

Se non è, dunque, per i motivi anzidetti, possibile configurare in capo al­l’Arbitro un generale obbligo di rivelazione, il caso di specie mostra però delle particolarità. Qui, infatti, l’Arbitro ricusato è un avvocato e in quanto tale tenuto, ai sensi dell’art. 61 del Codice deontologico forense, non solo a non assumere l’incari­co, in presenza delle fattispecie di cui all’art. 815 c.p.c., ovvero se «abbia in corso, o abbia avuto negli ultimi due anni, rapporti professionali con una delle parti» direttamente o attraverso altro professionista «di lui socio o con lui associato, ovvero che eserciti negli stessi locali», ma anche di «comunicare per iscritto alle parti ogni ulteriore circostanza di fatto e ogni rapporto con i difensori che possano incidere sulla sua indipendenza». Il citato articolo impone, dunque, all’Arbitro-avvocato un determinato com­portamento. Pertanto ci si deve chiedere: la presenza nell’ordinamento della disposizione dell’art. 61 del Codice deontologico forense impone all’avvocato-arbitro un obbligo di rivelazione sanzionabile in sede di responsabilità? O meglio la man­cata, dolosa o gravemente colposa, comunicazione di un motivo d’incompati­bilità, così come di ogni ulteriore circostanza tale da influire sulla sua indipen­denza, può essere qualificata come violazione di legge determinata da negligenza non scusabile da cui ai sensi dell’art. 2, comma 2, della legge sulla responsabilità civile dei magistrati? In proposito la Suprema Corte ha ritenuto che l’Arbitro-avvocato che non adempie al dovere di rivelazione incorrere nella violazione di legge nell’am­bito della quale deve essere «ricompresa anche la violazione delle norme del Codice deontologico dell’Ordine professionale, trattandosi di norme giuridiche obbligatorie valevoli per gli iscritti all’albo degli avvocati che integrano il diritto oggettivo» [26]. Tuttavia, anche ove si considerasse, concordando con l’opinione da ultimo indicata, l’inadempimento del duty of disclosuredell’avvocato-arbitro grave violazione di legge determinata da negligenza non scusabile, non sarebbe in ogni caso possibile intravederne anche una responsabilità, in quanto l’art. 813-ter c.p.c. consente la [continua ..]


5. L’artificiosa preordinazione della pendenza della lite non sostanzia la fattispecie di cui all’art. 815, comma 1, n. 4 c.p.c.

Le considerazioni sinora svolte conducono, dunque, nel caso di specie, a ri­tenere la proposizione, contemporaneamente all’istanza di ricusazione, dell’a­zione di responsabilità dell’arbitrato per «aver omesso di dichiarare al momento dell’accettazione dell’incarico di presidente del Collegio (...) di aver svolto attività professionale nei confronti (...) della controparte del procedimento» infondata oltre che mirata a creare un’artificiosa preordinazione della pendenza della lite rilevante ai sensi all’art. 815, comma 1, n. 4 c.p.c. E, infatti, se la previa pendenza della lite all’instaurazione del giudizio arbitrale costituisce indubbio indice dell’assenza della possibile precostituzione del motivo di ricusazione di cui all’art. 815, comma 1, n. 4, c.p.c., la giurispru­denza [30] ritenendo rilevante ai fini ricusatori anche la causa istaurata in corso di arbitrato, ha, invero, in tal modo imposto la necessità di distinguere tra cause artificiosamente preordinate a concretizzare la pendenza della lite e, dunque, il motivo di cui all’art. 815, comma 1, n. 4, c.p.c. e cause, invece, che effettivamente sono idonee a legittimare tale motivo di ricusazione. È, dunque, all’analisi di tale situazione che si dirige la decisione annotata in cui, giustamente, il Presidente milanese richiamando la giurisprudenza costituzionale [31] formatasi in ordine alla ricusazione del giudice statale, evidenzia la necessità di verificare l’assenza di un’artificiosa preordinazione della pendenza della lite proprio al fine di predisporre un’ipotesi di ricusazione del giudicante. Se nel caso di specie viene, dunque, rilevata la sussistenza di diversi indici – quali la coincidenza delle date degli atti e del loro deposito ovvero la sostanziale identità tra contenuto dell’istanza di ricusazione e domanda di risarcimento – «che inducono a confermare la natura meramente strumentale della causa instaurata dal ricorrente», quelli che sicuramente appaiono gli elementi che più degli altri dimostrano la preordinazione della pendenza della lite sono rappresentati dalla violazione del limite stabilito dall’art. 813-ter, comma 4, c.p.c. nonché dal fatto che «le domande svolte in atto di citazione rimandano ad altro giudizio la [continua ..]


6. Considerazioni conclusive: la violazione del duty of disclosure non è mai fonte di responsabilità dell’Arbitro

Peraltro, prima di concludere, importante appare rilevare come, anche ove la parte ottenesse l’annullamento del lodo dopo aver invano tentato la ricusazione per la presenza di uno dei motivi di cui all’art. 815 c.p.c. che l’Arbitro, pur sussistendone l’obbligo, non aveva rivelato [35], ugualmente l’azione di responsabilità non sembra potersi fondare sulla violazione dell’obbligo di di­sclosure. Anche in tal caso, infatti, il «motivo dell’accoglimento dell’impugnazione» del lodo non è il mancato esercizio del dovere di rivelazione quanto piuttosto altro vizio del lodo, ovvero, in particolare – secondo chi scrive – quello di cui all’art. 829, comma 1, n. 2 c.p.c. [36]. Ma cerchiamo di spiegare meglio questo importante profilo anche ripercorrendo considerazioni e risultati altrove raggiunti [37] in ordine al rapporto di complementarità esistente tra incidente di ricusazione ed azione di annullamento del lodo. Come noto l’art. 815, comma 3, c.p.c. qualifica espressamente non impugnabile l’ordinanza che decide sulla ricusazione dell’Arbitro. Tale previsione, se costituisce indubbiamente un ostacolo all’impugnazione dell’ordinanza di ri­cusazione, non sembra, invece, attribuire alla stessa carattere di accertamento definitivo e, conseguentemente, carattere preclusivo del possibile riesame della situazione d’incompatibilità dell’Arbitro [38]. Il fatto che l’ordinanza di ricusazione non possa, ex art. 815, comma 3, c.p.c., essere oggetto di controllo da parte di altro giudice, non sembra, in altri termini, impedire anche il successivo riesame dei motivi d’incompatibilità del­l’Arbitro dedotti e rigettati in sede di ricusazione: al giudice successivamente adito non spetterà il compito di controllare la legittimità dell’ordinanza, bensì solo di accertare l’eventuale presenza dei motivi di squalificazione dell’Arbi­tro già fatti valere in sede di ricusazione. Ripercorrendo in sintesi il lungo ragionamento svolto in altra sede [39], chi scrive ritiene, infatti, che solo la parte che abbia invano proposto istanza di ricusazione possa ottenere, nel giudizio d’impugnazione per nullità del lodo alla cui deliberazione ha concorso [continua ..]


NOTE
Fascicolo 1 - 2017