Giurisprudenza Arbitrale - Rivista di dottrina e giurisprudenzaISSN 2499-8745
G. Giappichelli Editore

Contaminazione e onere della prova nell'arbitrato antidoping internazionale. Note a margine del “caso Iannone” (di Alessandro Benincampi, Gian Paolo Guarnieri)


Il contributo affronta un caso antidoping deciso dalla Court of Arbitration for Sport (CAS) in cui l’atleta è stato condannato a quattro anni di squalifica. In particolare, in riforma della decisione di primo grado, il collegio arbitrale ha rigettato l’argomentazione difensiva secondo cui l’assun­zione della sostanza dopante sarebbe avvenuta mediante contaminazione alimentare. Si aprono così riflessioni sistemiche in ordine al rapporto tra onere della prova e contaminazione, i cui esatti confini sembrano essere mobili.

 

Contamination and burden of proof in antidoping’s jurisprudence: Iannone case

The essay analyzes the Arbitral Award delivered by the Court of Arbitration for Sport (CAS) in which the athlete received the sanction of ineligibility for four years. In particular, the Court rejected the appeal filed by the racer, claiming that the Anti-Doping rule violation was not intentional as it resulted from the consumption of contaminated food. The Award opens to a series of reflections about, among other things, the relation between the antidoping’s burden of proof and food contamination.

Keywords: Antidoping, Court of Arbitration for Sport, Burden of proof, Contamination.

MASSIMA: L’onere della prova richiesto all’atleta per dimostrare che la sostanza vietata è stata assunta mediante contaminazione di un prodotto alimentare deve esser assolto non solo offrendo la prova dell’avvenuto consumo dell’alimento ma fornendo particolari che consentano di ritenere, con ragionevole probabilità e facendo altresì ricorso a presunzioni semplici, che l’alimento fosse effettivamente contaminato. Il testo del provvedimento commentato è disponibile in PDF in calce al commento.  
SOMMARIO:

1. Il caso - 2. La decisione impugnata - 3. Onere della prova e contaminazione: casistica progressiva, linee evolutive e cenni comparatistici - 4. Conclusioni minime - - NOTE


1. Il caso

L’incontro tra la settorialità dell’ordinamento antidoping e la trasversalità del processo arbitrale solleva sovente spunti dalla rilevanza sistemica e dalla efficacia prospettica. Non fa eccezione il lodo reso dalla CAS [1] di Losanna nei procedimenti riuniti 2020/A/6978 e 2020/A/7068, il quale, nell’affrontare la positività per assunzione di sostanze dopanti da parte d’un racer di Moto GP (il noto pilota Andrea Iannone), ha tracciato una linea interpretativa rigorosa, che apre naturellement a riflessioni ben più generali e a prospettive evolutive del sistema antidoping. D’altronde, non può negarsi come le plurime sfaccettature d’una situazione concreta in tale contesto e la complessità delle dinamiche arbitrali tendono a scontrarsi con l’indole inquisitoria [2] del procedimento antidoping, specie quan­do appare determinante l’assolvimento dell’onere probatorio d’una inconsape­vole o incolpevole assunzione di sostanze vietate da parte dell’incolpato. Orbene, il caso qui in interesse rappresenta al meglio la tensione tra il regi­me di presunzioni del processo antidoping e l’esercizio del diritto di difesa, spingendo tale rapporto off-limits, in un terreno che fino ad oggi era stato battuto solo raramente; e che, invece, rappresenta ormai una frontiera oltre la quale l’ordinamento antidoping nazionale e sovranazionale deve accettare di spingersi: la contaminazione. La sostanza in questione è il drostanolone [3], steroide anabolizzante androgeno la cui principale indicazione clinica – secondo la Food and Drug Administration statunitense – era originariamente il trattamento del carcinoma mammario avanzato inoperabile nelle donne [4] e che, secondo la difesa del racer, era presente nella carne consumata nei ristoranti della Malesia, anche a causa dell’importazione di tali prodotti dalla vicina Cina. Così, il rinvenimento della sostanza nell’organismo, in seguito ai controlli effettuati a Sepang subito dopo la gara del 3 novembre 2019, aveva posto l’ac­cento sulle abitudini alimentari dell’atleta e sulla sua capacità di controllare i rischi connessi, con il precipuo scopo di dimostrare che si era verificata una contaminazione a danno dell’atleta medesimo. Gli esiti dei due gradi di giudizio – con un aumento del doppio della sanzione [continua ..]


2. La decisione impugnata

Il caso giunto all’attenzione della Court of Arbitration for Sports di Losanna (di seguito anche solo CAS) muove appunto dal controllo antidoping effettuato sull’atleta Andrea Iannone in occasione della competizione di Moto GP del novembre 2019 a Sepang, Malesia. Iannone, tesserato per la Federazione Motociclistica Italiana (di seguito anche solo ‘FMI’ o ‘Federmoto’) – e, più in dettaglio, per la “Aprilia Racing Team Gresini” – prendeva parte al Campionato Mondiale MotoGP svoltosi sotto l’egida della FIM – Fédération Internationale de Motocyclisme (di seguito anche solo ‘FIM’) nelle date del 1 – 3 novembre 2019. In occasione dell’ultima giornata di gara della predetta competizione, l’a­tleta veniva sottoposto a controllo (urinario) antidoping la cui elaborazione veniva demandata all’Institute of Doping Analysis and Sport Biochemistry (“IDAS”), quale laboratorio accreditato presso la WADA [5] in Germania. Successivamente, il 28 novembre 2019, il predetto laboratorio restituiva alla FIM i riscontri dell’accertamento effettuato informandola dell’esito ‘avverso’. Nel campione prelevato veniva, infatti, rilevata la presenza del metabolita “2α-methyl-5α-androstane-3α-ol-17-one” (altresì noto come ‘drostanolone’) nella concentrazione di circa 1,5 ng/ml. Tale sostanza, di origine sintetica, compare nella lista delle sostanze vietate dalla WADA giacché ricompresa nella categoria degli steroidi anabolizzanti vietati in quanto volti ad ottenere un aumento di forza a fronte di un limitato aumento della massa corporea. In proposito, giova sin d’ora precisare come, ai sensi della normativa WADA e ai fini dell’integrazione della relativa violazione regolamentare, non assuma rilevanza il livello di quantità (ng. per ml.) della predetta sostanza. La rilevazione, valevole per la positività antidoping, è invero basata su di un sistema binario presente/assente, in ragione dell’artificia­lità della sostanza. Con comunicazione del 16 dicembre 2019, la FIM informava quindi Iannone dell’esito avverso, notificandogli inoltre il provvedimento di sospensione cautelare consistente nell’inibizione a partecipare alle competizioni sportive fino a successiva comunicazione; contestualmente, [continua ..]


3. Onere della prova e contaminazione: casistica progressiva, linee evolutive e cenni comparatistici

La différence tra gli esiti dei due gradi di giudizio rivela la complessità del caso deciso e, soprattutto, la difficoltà di valutare unitariamente gli elementi offerti dalla difesa del racer per dimostrare l’assunzione inconsapevole e incolpevole. Ma soprattutto, lo iato procedimentale mostra chiaramente la fluttuante e incerta ingerenza dell’id quod plerumque accidit nella giurisprudenza arbitrale antidoping. D’altronde, come visto supra, le motivazioni poste alla base della sentenza della CDI si fondavano sull’integrazione della c.d. no significant fault or negligence, ai sensi dell’art. 10.5.2 dell’ADC, sulla base di argomentazioni caratterizzate quasi esclusivamente da un meccanismo presuntivo: l’esigua quantità di drostanolone era compatibile con una unintentional occasional exposure alla carne contaminata, l’atleta non conosceva i luoghi – non avendo accesso alla hospitality area e non potendo mantenere appieno le sue abitudini, anche alimentari, e infine il consumo di carne in «high class hotels»; tutti elementi, questi, che potevano far ritenere che «one does not expect to have contaminated food». Pure si è visto, invece, come il grado di appello dinanzi alla CAS di Losanna abbia ritenuto che i fatti introdotti dalla difesa fossero allégué sans être contesté – e, dunque, n’est pas à prouver, secondo la nota dogmatica processuale [12]; in particolare, il ragionamento del collegio arbitrale svizzero prendeva le mosse dalla mancata dimostrazione del fatto principale, vale a dire l’effet­tivo consumo di carne da parte di Iannone presso i ristoranti durante il periodo di soggiorno in terra malese. Anzi, il panel non ha mancato di biasimare le allegazioni difensive, che non solo non contenevano documenti da cui emergesse l’effettiva ordinazione della carne nei ristoranti malesi, ma che avrebbe fondato le proprie argomentazioni su «improvised speculation» [13], basandole su «adverse clichés and/or gratuitous suggestions of incompetence directed at the hospitality industry in the region of the said hotel in Malaysia» [14]. Epperò, la differenza dei gradi di giudizio rivela ben più di quanto non sia chiamata a fare e lascia apparire in superficie impurità sistemiche che, lette in un’ottica unitaria con altre [continua ..]


4. Conclusioni minime

Il lodo in commento s’innesta, dunque, in una serie ordinata – ancorché non lineare – di decisioni che sembrano indicare una direzione univoca. Tuttavia, il dato normativo in vigore si mostra ancora graniticamente insensibile. Come noto, infatti, lo standard probatorio regolamentare richiede che l’in­colpato fornisca elementi concreti e “apprezzabilmente convincenti” che non solo possano escludere l’assunzione volontaria e intenzionale ma da cui non possa rinvenirsi nemmeno un elemento colpevolistico da rimproverare all’atle­ta – secondo quanto previsto dall’article 10.5. dell’AntiDoping Code [31]. Standard che, se disatteso, porta inevitabilmente all’applicazione della sanzione della squalifica, peraltro nella misura di quattro anni. Nondimeno, quando ci si para dinanzi alla contaminazione, la stessa capacità dell’incolpato di dimostrare l’alterazione del prodotto perde intensità. Già parzialmente diverso è il caso del prodotto “adulterato” [32], il quale sarebbe comunque riconoscibile, dovendo riportare la sostanza in etichetta – ancorché, poi, sostituita dal produttore con altra. Il prodotto contaminato, invece, non è tendenzialmente percepibile dal consumatore, che lo acquista ed assume per le qualità apprezzate in etichetta cui, tuttavia, si aggiunge la sostanza vietata. In esso, non solo l’elemento volontaristico dell’assunzione è vano ma la stessa possibilità dell’atleta di riconoscere – e dunque evitare – la contaminazione evapora, lasciando il posto a elementi presuntivi sovente non agevoli da collazionare e offrire. A ciò si aggiunga la statica rilevazione di molteplici sostanze vietate con il criterio di presenza/assenza, che allinea e livella le differenze quantitative, che spesso risultano invece considerevoli. Ma, soprattutto, è la combinazione tra il burden of proof richiesto ordinariamente e le oggettive difficoltà probatorie in caso di contaminazione che rende con tutta evidenza il sistema antidoping eccessivamente gravoso per gli atleti. Come osservato nel caso in commento, la mancata prova da parte del racer circa la sua natura e il luogo di assunzione del cibo contaminato – tentando di soccorrere anche con il menu del ristorante – hanno escluso qualsiasi tentativo di attenuazione [continua ..]



NOTE