Con la sentenza in commento, la Corte europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia per la violazione dell’art. 6, comma 1, Cedu, per non aver assicurato la protezione delle garanzie del giusto processo nell’ambito del procedimento arbitrale. I pregressi rapporti lavorativi tra la parte e l’arbitro pregiudicano l’imparzialità del Collegio arbitrale.
The European Court of Human Rights holds Italy responsible for the violation of art. 6 (1) of the Convention for failing to ensure the protection of the guarantees of due process during the arbitration proceedings. The relationship between the party and the arbitrator could legitimately give rise to doubts as to the impartiality of the arbitral tribunal.
Keywords: Arbitration, Cedu, Independence, Impartiality of the arbitrator.
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1. Il caso - 2. L’arbitrato e l’art. 6 Cedu - 3. Sulla rinuncia alle garanzie del giusto processo - 4. Il caso Beg e la giurisprudenza della Corte Edu - 5. Considerazioni conclusive - NOTE
Con sentenza del 20 maggio 2021, n. 5312/11 [1], nell’ambito di un procedimento instaurato dalla società Beg s.p.a. contro lo Stato italiano, la Corte europea dei diritti dell’uomo torna a pronunciarsi sul tema dell’applicazione delle garanzie del giusto processo all’arbitrato. La pronuncia in esame trae origine da un ricorso promosso da una società operante nel settore della costruzione e della gestione di centrali idroelettriche e installazione di impianti energetici da fonti rinnovabili, la Beg s.p.a., avverso lo Stato italiano per la violazione dell’art. 6, comma 1, Cedu. Più precisamente, la ricorrente censurava la violazione del principio dell’indipendenza e dell’imparzialità di un membro del Collegio arbitrale costituito per la risoluzione di una lite commerciale insorta tra la stessa e la Enelpower s.p.a. relativamente all’inadempimento di un accordo concluso tra le parti nel 2000. All’interno dello stesso, le parti prevedevano una clausola compromissoria per devolvere eventuali liti alla Camera arbitrale di Roma. A fronte dell’inadempimento della controparte, la Beg s.p.a. instaurava un procedimento arbitrale, chiedendo che fosse accertato l’inadempimento della stessa e riconosciuto il risarcimento del danno. Veniva costituito il collegio a tre arbitri, due dei quali nominati dalle parti e il terzo di comune accordo. All’atto di accettazione dell’incarico, uno degli arbitri di parte non provvedeva a svolgere la disclosure prevista dal regolamento arbitrale [2], seppure avesse assistito e continuasse a rappresentare la società Enel (e non Enelpower) [3] nell’ambito di procedimenti davanti ai giudici statali e avesse ricoperto incarichi nell’ambito del consiglio di amministrazione della stessa. Tuttavia, di tali circostanze la ricorrente veniva a conoscenza solo dopo l’emissione del lodo [4]. Per tale ragione, l’istanza di ricusazione dell’arbitro promossa dalla Beg s.p.a. ex art. 815 c.p.c. al Tribunale di Roma veniva respinta perché tardiva. La società ricorrente proponeva impugnazione per nullità del lodo avanti alla Corte d’appello di Roma, deducendo, tra l’altro, la mancata formulazione della dichiarazione di imparzialità da parte dell’arbitro. La Corte rigettava il ricorso affermando che l’imparzialità [continua ..]
La pronuncia in esame riporta in auge il tema dell’applicazione all’arbitrato del diritto a un processo equo [9], prerogativa di ogni ordinamento democratico [10]. Nell’arbitrato, così come nel giudizio statale, viene in rilievo l’esigenza di garantire il rispetto di quel nucleo di interconnesse garanzie proprie dell’art. 6, comma 1, Cedu, seppure questa non conduca a una riduttiva equiparazione tra i due modelli, con conseguente applicazione tout court delle garanzie del fair trial all’uno e all’altro procedimento [11]. La scelta delle parti di devolvere la risoluzione della lite ad arbitri è compatibile con il dettato della Convenzione [12], consentendo di rifuggire dal tradizionale meccanismo di composizione del conflitto, il cui carattere macchinoso e incerto si traduce troppo spesso in un diniego di giustizia. Si ritiene in dottrina che il diritto di accesso a un giudice costituisca «una garanzia implicita e immanente in quelle formalmente consacrate» [13] nell’art. 6, comma 1, Cedu, in virtù della quale alle parti è riconosciuta la facoltà di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, affinché questi non si esauriscano in «vane declamazioni di principio» [14]. Anche nella giurisprudenza europea, il diritto di accesso a un tribunale non implica che la composizione del conflitto sia necessariamente affidata a un giudice togato [15], giacché, avuto riguardo agli innegabili vantaggi [16] che la stipulazione di una convenzione arbitrale può comportare all’interessato e all’amministrazione della giustizia, è legittima la rinuncia alla giurisdizione statale a vantaggio di quella arbitrale. Diverso rispetto al tema della legittima previsione di clausole arbitrali attraverso le quali le parti rinunciano al giudizio statale, è l’applicabilità delle garanzie consacrate all’art. 6, comma 1, Cedu all’istituto arbitrale [17]. Sul punto, la giurisprudenza ribadisce il principio per cui è necessario distinguere tra arbitrato obbligatorio e volontario [18], delineando una diversa regolazione del rapporto tra arbitrato e princìpi del giusto processo. Più precisamente, quando la devoluzione della lite ad arbitri privati è il risultato della «creazione del legislatore» [19] [continua ..]
La legittimità della rinuncia alle garanzie dell’art. 6, comma 1, Cedu è subordinata al rispetto dei presupposti che i giudici di Strasburgo hanno via via delineato a presidio della volontarietà della scelta delle parti di accedere a un giudizio davanti ai giudici privati e non togati, così come, a fortiori, di derogare alle garanzie del giusto processo. La Corte, ribadendo che la rinuncia non è incompatibile con il testo convenzionale, richiede tuttavia che sia assicurata la libertà, l’inequivocabilità, la liceità della scelta e che sia assicurato il rispetto di garanzie minime commisurate alla sua importanza [24]. Se, da un lato, il rispetto dei requisiti ora citati – e oggetto di valutazione nella pronuncia in esame – non solleva particolari perplessità, più complesso appare definire quali princìpi del giusto processo sono rinunciabili per effetto di una statuizione delle parti. La giurisprudenza di Strasburgo è solita affermare che alla volontaria devoluzione di una lite in arbitrato non corrisponde una totale rinuncia alle garanzie del giusto processo [25], tale per cui «a distinction may have to be made even between different rights guaranteed by Article 6» [26]. Tale inciso sembra segnare un discrimen tra le garanzie dell’art. 6, comma 1, Cedu, in base al quale alcune garanzie, in ragione di una non precisata superiorità, sarebbero irrinunciabili, mentre altre sarebbero derogabili per accordo delle parti. La Corte giunge a tale risultato ma non si occupa del cuore del giusto processo, la cui determinazione viene lasciata all’interprete. Invero, la mancata predeterminazione del nucleo essenziale di garanzie proprie del processo arbitrale non rappresenta un vulnus alla protezione delle garanzie del giusto processo, anzi, esclude la creazione di una rigida ripartizione tra i princìpi incapace di cogliere le peculiarità del caso concreto [27]. Tuttavia, non si può celare il fatto che la distinzione tra garanzie rinunciabili e non rinunciabili espone al rischio di una gradazione dei princìpi del giusto processo, dal più al meno meritevole di protezione – e quindi rinunciabile –, trascurando che l’art. 6, comma 1, rappresenta un patrimonio di garanzie a cui il giudizio davanti ai giudici statali si deve necessariamente sempre [continua ..]
Nella vicenda alla base della sentenza in commento, la natura volontaria dell’arbitrato non è in discussione, tuttavia, è controverso se le parti abbiano volontariamente rinunciato al diritto a che la propria causa sia giudicata da un organo indipendente e imparziale. La Corte esclude che la parte abbia rinunciato all’indipendenza e all’imparzialità dell’organo giudicante, come è escluso che la parte abbia rinunciato al controllo da parte dei giudici nazionali [35]. Nel merito, la giurisprudenza giunge a tale conclusione analizzando distinti profili. In primo luogo, i giudici di Strasburgo affermano che l’assenza di una esplicita richiesta di disclosure non costituisce indice sintomatico di una volontaria rinuncia al presupposto. Inoltre, considerano condivisibile la tesi sostenuta dalla ricorrente per cui la mancata dichiarazione all’atto di accettazione dell’incarico dell’esistenza di cause di conflitto di interessi ne faccia legittimamente presumere l’assenza, non condividendo – in quanto privo di fondamento – l’assunto per il quale la parte avrebbe dovuto essere a conoscenza dei legami tra l’arbitro e la società Enel sul presupposto della sua notorietà. Da ultimo, la Corte esclude che attraverso la stipulazione della convenzione arbitrale la parte abbia inequivocabilmente rinunciato al requisito dell’indipendenza e dell’imparzialità dell’organo giudicante, così come al controllo esercitato dai giudici nazionali, rilevando delle differenze tra la vicenda in esame e il caso Suovaniemi. Diversamente da quest’ultimo caso, ove la parte aveva omesso di esperire i meccanismi prospettati dall’ordinamento a protezione dell’indipendenza e dell’imparzialità dell’organo giudicante, nel caso in esame la ricorrente, venuta a conoscenza del vizio solo a seguito della deliberazione e della sottoscrizione del lodo, si trovava nell’impossibilità di ricorrere fruttuosamente all’utilizzo degli strumenti previsti dal codice di procedura civile [36]. L’omessa proposizione non è ascrivibile all’inerzia della parte che aveva invece azionato i relativi rimedi dopo l’emissione del lodo e dunque non aveva rinunciato al rispetto del requisito. Accertata la mancata rinuncia all’indipendenza e [continua ..]
In conclusione, la pronuncia in commento merita di essere accolta positivamente in quando diretta a rafforzare l’indipendenza e l’imparzialità dell’arbitro. Tuttavia, è auspicabile che, attraverso le future pronunce, la Corte approdi ad una ricostruzione complessiva del rapporto tra arbitrato e art. 6 Cedu, così da offrire un’immagine organica della giustizia privata. L’implementazione dei procedimenti arbitrali nel tentativo di porre rimedio alle problematiche che affliggono i giudizi davanti ai giudici statali non può condurre alla creazione di un meccanismo che differisca – se non nei limiti che discendono dalle caratteristiche del procedimento [56] – dal giudizio statale sul piano del riconoscimento e dell’applicazione al suo interno delle garanzie del giusto processo. Stante l’orientamento consolidato della Corte europea dei diritti dell’uomo, lo sguardo deve essere rivolto alle elaborazioni in seno alle Camere arbitrali e agli interventi normativi a livello nazionale, i quali possono rappresentare un punto di riferimento per l’affermazione delle garanzie del giusto processo nell’ambito delle procedure arbitrali. Il progetto di riforma avviato dal nostro legislatore sembra muovere nella giusta direzione. L’introduzione a livello normativo dell’obbligo per gli arbitri di dichiarare, all’atto di accettazione dell’incarico, l’esistenza di circostanze suscettibili di compromettere la propria indipendenza e imparzialità è in linea con l’orientamento condiviso dalla dottrina e dalla giurisprudenza europea secondo il quale non solo un organo giudicante deve essere imparziale, ma deve anche apparire come tale. Non solo, la formalizzazione del c.d. Duty to disclosure a pena di nullità dell’atto di accettazione dell’incarico dell’arbitro [57] consente soprattutto di rafforzare a monte [58] la tutela del fair trial nell’ambito dei procedimenti arbitrali, ponendo l’ordinamento al riparo da future condanne da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo per la mancata previsione – come nella vicenda in esame – di efficaci strumenti preventivi di protezione dell’indipendenza e dell’imparzialità dell’organo giudicante. Dopotutto, come è stato autorevolmente sostenuto, se «l’arbitrato [continua ..]